“Art is work”. In questi giorni, i profili di molti utenti facebook esibiscono questa bandiera. Non serve che sovrapponga questa frase al mio viso, ne parlo già sempre in questi termini, e voi lo sapete. Piuttosto, magari è utile raccontare meglio cosa si intenda per lavoro, parlando di arte. Provo a farlo per capitoli, nei prossimi giorni, a beneficio di chi si chiede “Is Art work?”. Chiamiamola formazione a distanza. Cap.1: il lusso Capita che qualcuno presuma che io sia ricca di famiglia, abbia una rendita, mi possa concedere il lusso di chiamare lavoro quello che mi piace (e so) fare, a prescindere dal fatto che mi dia o meno da vivere. Basta una frase di mio padre, a sgombrare il campo da ogni equivoco: “Sono sempre stupito dalla tua capacità di privarti delle cose”. È vero. Ho fatto della privazione, dell’arrangio, un’arte. A parte qualche occasionale stravaganza alimentare, e una non altrettanto occasionale compulsione libresca, non ho problemi a fare a meno di quasi tutto ciò che gli altri considerano indispensabile. L’unico lusso reale e necessario che sono obbligata a concedermi è il tempo. Perché il lavoro artistico di creazione lo impone. Spesso un tempo lento, apparentemente morto. Un vuoto in cui si agita un brodo primordiale, la cui evoluzione non posso affrettare a mio piacimento. È un tempo conteso a mille aspetti pragmatici del lavoro stesso (amministrazione, promozione, diffusione, burocrazia, costruzione, movimento), alle scadenze dei lavori stessi, alle incombenze della vita quotidiana, alla famiglia. È un tempo conteso al cattivo umore, all’emicrania, ai dubbi, ai malanni. È un tempo anche conteso agli svaghi, alle amicizie, agli amori. Per essere un tempo morto, è piuttosto impegnato, dunque. Ora direte: non si può quasi lavorare nell’arte, quindi hai tempo in abbondanza? No, perché quello della creazione è un tempo che se normalmente non è remunerato, adesso è completamente in perdita. E quindi si trasforma in tempo dedicato a trovare un modo di mettere insieme il pranzo con la cena, ad arrangiarsi, a spremere limoni rinsecchiti nel frigo. A far fronte a quella perdita. Che è un po’ più, e un po’ diverso dall’arrendersi a campare come fanno quasi tutti gli altri. Non considerare l’arte un lavoro, in sintesi, significa privare me del tempo per produrre qualcosa che prima non c’era, e voi dell’opportunità di godere di qualcosa di cui non sapevate di avere bisogno. Queste sì, due necessità travestite da lussi.